giovedì 26 agosto 2010

Studiare è un lusso.

Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato online un articolo sullo stato dei ventenni americani, che dopo essere usciti di casa per studiare al college o per fare un PHD tornano bellamente a farsi lavare le mutande dai genitori.

Mentre al Times si chiedono con preoccupazione che succederà, sul sito dell’italico Corriere della Sera spunta un articolo che più o meno glorifica la categoria dei mantenuti che a 30 anni non hanno ancora capito cosa vogliano dalla vita.

Si parla di tale Denis Trivellato, un ragazzone milanese di 28 anni con la faccia simpatica, un irriverente mullet anni ’80 ed il pizzo alla Gennaro Gattuso, che dopo aver concluso l’istituto alberghiero, racconta, si è laureato in Filosofia per poi rendersi conto in seguito di voler fare anche la facoltà di Psicologia.

Seguono momenti in cui racconta della sua terribile battaglia con la vita ed il consumismo, di come fieramente si quasi-mantenga (ottenendo dai suoi genitori solamente un alloggio e parte del vitto) spendendo solo 14 euro al giorno.

Credo che l’idea sottostante l’articolo fosse più o meno quella di far capire che non tutti quelli che in età relativamente avanzata ancora studiano e si fanno mantenere dai genitori siano dei fancazzisti mangiapane a tradimento.

Mi vengono in mente due cose.
Anzitutto, se l’autore sapesse fare i conti capirebbe che non c’è nulla di eccezionale nel vivere con 14 euro al giorno se si è mantenuti, in quanto:

a) 14 x 365 = 5.110€ all’anno. Se contiamo che per vivere a milano (non mantenuti) servono, per la sopravvivenza, minimo 700€ al mese tra casa e cibo, allora:
b) 5.110 + (700 x 12) = 13.510€, ossia l’equivalente di uno stipendio netto di circa 1.040€ al mese (con tredicesima), più o meno quello che guadagna molta gente giovane che si mantiene a Milano.

Non vedo quindi l’eccezionalità, dal punto di vista delle economie, dell’impresa di Denis.

In secondo luogo, si manca il punto più importante: che cazzo ci fa Denis a 28 anni a prendersi la seconda laurea?

Fare l’università non è un diritto, bensì un lusso che i genitori benevolmente concedono. Un figlio ha il dovere di fare gli studi bene, senza ritardi, e di scegliersi la strada con coscienza.

Non ci si può svegliare a 25 anni capendo di voler studiare Psicologia, Ingegneria, Scienza dell’Ortofrutta.

Ricordo le parole del mio giusto padre quando passai la maturità:
“Figlio, ora sei diplomato. Grazie a Dio, se lo vuoi, la nostra famiglia ha la fortuna di poterti permettere un’università. Scegli ciò che vuoi, pensandoci bene, e sappi che sarai sovvenzionato per la durata standard del tuo cursus studiorum. A partire dal primo giorno fuoricorso dovrai mantenerti esclusivamente con i tuoi mezzi, perchè nostro dovere è darti le opportunità, non mantenerti per sempre.”

Questa è l’attitudine da seguire, ed un figlio, a 28 anni, non dovrebbe gloriarsi del fatto di gravare poco sulle economie della famiglia. Non dovrebbe gravarci proprio, da anni.

Ancor più grave è che un quotidiano nazionale presenti questo tipo di (non più) giovani come un esempio virtuoso e non, come si dovrebbe, come una anomalia dei nostri troppo agiati tempi moderni.

mercoledì 25 agosto 2010

La fine della tauromachia

La catalogna vieta la corrida; già agonizzante per mancanza di spettatori, l'arte di "matar el toro" è stata definitivamente messa al bando.

La vittoria degli "animalisti" e dei "non violenti".
Non è ora mia intenzione esaminare la piaga dell'animalismo, magari in futuro, voglio invece rammaricarmi per la scomparsa dell'ultimo scampolo di una nobilissima espressione della "Tauromachia".

Tauromachia, parola che suscita in noi deboli, flaccidi e viziati occidentali moderni, un moto di ilarità.
Parola che leghiamo ad un "machismo" antico, gretto e ignorante.
In realtà la lotta, e i giochi, contro i bovini, simbolo e mezzo di potente virilità, hanno un'antichissima tradizione, plurimillenaria, che non si esaurisce affatto ma, purtroppo, come stiamo assistendo, si estinguerà, almeno in europa , nella "corrida de toros".

La lotta, la sfida virile fra maschi, non ha come unico campo di utilizzo e unica direttrice la guerra; ogni società ha avuto, e in alcuni casi ha ancora, espressioni di violenza, pur contenute, non destinate alla morte di uno dei contendenti, ma con schiette caratteristiche guerresche e fisiche.

Noi europei ne facemmo regolare uso, nella nobile forma del duello.
Ancora poco più di un secolo fa, non era cosa da suscitare chissà quale scandalo, benchè le autorità si siano sempre impegnate alla sua repressione, ma scarsamente, più per una facciata d'ordine che per altro.
Perchè si, come era ovvio all'epoca, l'onore senza forza di difenderlo non ha modo di esistere.

La conoscenza della morte e della violenza, come ci ispirano le società antiche e, ad oggi, alcune tribali, non implica necessaramente la bruttura e la decadenza; al contrario, generano una profonda conoscenza che porta la necessaria consapevolezza.

Questa comprensione nella nostra società è limitata, annacquata, affogata da stereotipi e immagini provenienti da lontano, imprecise e distorte.
Ed è per questo, che quando viene messa in atto, al di la di qualsiasi ragione lo si faccia, essa è quasi sempre mal controllata e mal utilizzata, anche dai "professionisti" come le forze dell'ordine.
L'humus in cui svilupparla, questa professionalità, non esiste più.

I nostri giovani cresciuti nella bambagia, quando avranno da doverla affrontare, perchè capita e capiterà, ne saranno colti di sorpresa, sprovveduti, indifesi, non pratici, la useranno con perfidia animalesca o la subiranno pateticamente.

Oggi la risposta sono i surrogati della violenza, la "competizione non violenta", in tutti i campi.
Intendo proprio tutti: dalla competizione aziendale, allo sfoggio di volgari oggetti e la lotta per chi sperperi più denaro possibile, alla partita a calcetto alla domenica.

Inadatte soluzioni e femminee risposte.





domenica 22 agosto 2010

La società dei lamenti.

Oggi la gente ha come sport preferito il lamentarsi.
Di per se la cosa non sarebbe deprecabile, se il lamento fosse giustificato (le cause della situazione ritenuta negativa sono effettivamente solo esogene) e se ad esso fossero fatte seguire delle azioni mirate al miglioramento.
Nella stragrande maggioranza dei casi non sussistono nessuna delle due giustificazioni.

“Giovani” di trent’anni neolaureati si lamentano dal bar alle 5 del pomeriggio di un martedì di non avere un lavoro a loro dire degno degli studi fatti.
Gente che si lamenta del fatto di faticare ad arrivare a fine mese parlando all’amico con il cellulare da mezzo stipendio.
Per queste categorie di persone solitamente non c’è possibilità alcuna di un ritorno nel mondo terreno: si può solo evitarle.

Altri, però, si trovano effettivamente in situazioni sfortunate non a causa loro: pensiamo a chi si trova a Milano, con un lavoro, a trentacinque anni e senza la possibilità di pagarsi una casa e di fare un figlio perché con lo stipendio da fame che percepisce dalla multinazionale dovrestiesserefierodilavorarepernoi o ringraziaicielocheunlavorocel’hai di turno riesce a malapena a pagarsi l’affitto del bilocale da 35 metri quadrati in cui vive con la moglie.
Anche questi fieri eroi dei tempi moderni non devono però cadere nell’errore dell’eterno lamento, in quanto passato un certo periodo di tempo si perde il diritto di lamentarsi, a meno di non aver provato varie soluzioni atte al miglioramento. Nel caso citato può essere iniziare un’attività indipendente oltre al lavoro che già si ha, più semplicemente provare a cambiare lavoro, provare a trasferirsi in un posto in cui le case costano meno.

Deve essere chiaro che tutte le soluzioni ai problemi comportano sacrifici. Non si può pretendere di avere qualcosa in cambio di nulla, perché a questo mondo, diversamente da quanto credono alcuni alternativoidi rimasti storditi dalle troppe droghe consumate in gioventù, niente viene gratis. Ad ogni conquista corrispondono uno o più sacrifici. Alle volte addirittura a certi sacrifici non corrisponde nessuna conquista.

Ricordiamoci che i nostri doveri sono più dei nostri diritti: se ci ostiniamo a credere che uno nasca con altri diritti oltre a quello alla vita (che però spesso non rispettiamo, curiosamente) ed al libero pensiero/espressione (anche questo spesso tarpato) ci sbagliamo di grosso, e ci avviamo verso un futuro ben fosco, in cui chi pensa prima a fare e poi a chiedere ci sopravanzerà e dominerà inesorabilmente.

L'inutile politica.

Le “democrazie occidentali” non ci rappresentano per nulla.
La cosa è curiosa dato il fatto che “democrazia” significa “potere del popolo”.
Ad oggi, il cittadino medio non ha assolutamente nessuna capacità di influire sulla scelta degli eletti, ma solo (nella più fortunata delle ipotesi) la possibilità di decidere chi far sedere in parlamento da una lista di persone scelte da un sistema chiuso ed autoreferenziale che sono i partiti.
Oramai ci siamo lentamente assuefatti alla cosa, ma resta allucinante, più che altro per l’assoluta impermeabilità del sistema politico.

La prossima volta che andate a votare, fermatevi per un momento a leggere la lista dei candidati del partito che votate.
Pensate anzitutto a quanti ne conoscete.
Poi, pensate, per quelli a voi noti, per quali ragioni vi sono noti: hanno fatto qualcosa di speciale o semplicemente li avete sentiti nominare più volte?
La stragrande maggioranza di chi siede in parlamento, senato, governo, lo fa in quanto deciso a tavolino da un gruppo di persone ristretto e non a seguito del nostro beneplacito: l’affermazione è forte, ma perché è cosi?

Facciamo un esempio. Il partito A sa di avere, ad ogni elezione, una percentuale di voti oscillante intorno al 20%, equivalente a circa 120 parlamentari. Visto che la percentuale di votanti esprimente una preferenza nominativa è risibile, il partito A sa di poter piazzare, con assoluta certezza, almeno 80 (manteniamo un cospicuo margine di sicurezza) candidati scelti unicamente dai dirigenti di A stesso, semplicemente posizionandoli in alto alle liste.
Si plachino immediatamente frikkettoni e rastamanni con bonghi e cani semirandagi al seguito: non si tratta di una particolarità italiana, non è tutta colpa di Berlusconi. È cosi in tutti i paesi con un certo numero di abitanti (in Islanda abitandoci 15 persone in totale ovviamente si conoscono tutti) dove la democrazia è “evoluta”, ed è curioso notare come i sempre tanto vituperati Stati Uniti siano gli unici in cui qualche barlume di connessione tra il popolo e gli eletti rimanga vivo.

Prima che questo sistema crolli sotto i colpi delle sue debolezze, come successo a tutti i sistemi prima di esso, l’unica possibilità che rimane è non votare, in quanto con qualunque nostro atto da votanti (anche la scheda bianca o la nulla), riconosciamo implicitamente come legittimo questo immorale ed ingiusto sistema instauratosi.

Le aziende ed il mito del danaro.

Sono tanti anni che ho la ferma convinzione che ci sia qualcosa di sbagliato a questo mondo, ed ogni volta che guardo con attenzione a quello che succede nel mondo delle grandi aziende, la massima espressione della corporatività umana, la mia sensazione ne esce corroborata ed amplificata.

Mentre la gente si strappava i capelli a causa di una crisi mondiale provocata dall’ingordigia delle società finanziarie ma pagata dalla gente comune, successe quello che tutti si immaginavano: le borse crollavano, le aziende licenziavano, la gente che aveva perso il lavoro non lo ritrova.
Il 2009 è stato un anno record per molte cose, per le aziende di Fortune 500 (le 500 aziende più grosse al mondo): perdita di valore per quelle quotate, licenziamenti, perdita di fatturato, aumento dei profitti.

Eh?
“aumento dei profitti?”

Il 2009 ha visto molte aziende (molte di più che nel 2008, anno storicamente ottimo per l’economia) aumentare in modo drastico i profitti.
Visto che in media i fatturati sono scesi, questo è avvenuto unicamente tagliando i costi, che in alcuni casi è una cosa virtuosa (ad esempio se si spende meno in inutili campagne di marketing), ma che spesso nel mondo di oggi guidato dai finanzieri e dai contabili si riduce al licenziare più gente di quanto non si abbia effettivamente bisogno.
Quando i soldi sono l’unica cosa che conta, una crisi è, per un’azienda sana, un’ottima scusa per fare un po’ piazza pulita e guadagnare ancora di più, fregandosene delle situazioni terribili in cui vanno a lasciare famiglie intere.

Harley Davidson, una delle marche più maschie al mondo assieme a Zippo e Jack Daniel’s , ha avuto nel 2009 una delle sue migliori annate in termini di profitto, ma ha licenziato una buona parte degli impiegati.
Il 2010 si preannuncia per loro ancora migliore, ma la dirigenza ha già dato un secondo giro di vite,minacciando di “delocalizzare” la produzione se gli operai non accettano più flessibilità di orari di lavoro, di salari, eccetera. Altri licenziamenti sono in vista. Intervistato sull’Herald Tribune, un interno diceva candidamente “no beh, non pensiamo di riassumere una volta che le cose andranno meglio: ci stiamo solo abituando a fare più soldi con meno persone”.

La mia formazione ed i miei valori mi impediscono assolutamente di avere pensieri “comunisti”, ma davanti a questo genere di manifestazioni della meschinità umana non si può non augurarsi roghi e forconi.